Idee & consigli
Jerry Lawson: il visionario che cambiò per sempre i videogiochi

Prima che nomi come Atari, Nintendo o Sony dominassero l’immaginario collettivo, c’era un uomo afroamericano nato a Brooklyn che stava preparando una rivoluzione silenziosa. Jerry Lawson, figlio di un portuale appassionato di scienza e di una maestra di scuola, crebbe negli anni ’40 in un’America in cui il colore della pelle era ancora una barriera, ma non smise mai di credere che la curiosità potesse aprire tutte le porte. Per lui, i giocattoli non erano semplici passatempi: erano strumenti per capire come funzionava il mondo. Con la sua draisina a quattro ruote percorreva instancabile le strade del Queens, trasformando il quartiere in un laboratorio a cielo aperto.
Eppure, il seme della sua ambizione non germogliò soltanto dal gioco, ma anche dall’ispirazione. Alla scuola elementare, di fronte a compagni quasi tutti bianchi, Lawson trovò in George Washington Carver – l’inventore e scienziato afroamericano di fama mondiale – un faro di possibilità. Il suo ritratto, appeso accanto al banco di Jerry, era molto più che una cornice: era la prova che la genialità nera poteva scrivere pagine decisive della storia. In quell’immagine, il giovane Lawson vedeva riflesso il futuro che avrebbe cercato di costruire, un futuro dove la tecnologia non era riservata a pochi eletti, ma poteva diventare terreno fertile per chiunque avesse il coraggio di immaginare l’impossibile.
Dalla passione alla Silicon Valley
La curiosità di Jerry Lawson non rimase confinata alle aule scolastiche o alle corse infantili nel quartiere. Negli anni Sessanta, quando l’America era attraversata dalla corsa allo spazio e dal boom dei computer, lui decise di trasformare quella passione in una professione. I suoi primi passi furono a New York, dove lavorò presso Federal Electric ITT e successivamente a PDR Electronics: ambienti che gli permisero di affinare le competenze tecniche e di avvicinarsi al cuore pulsante dell’elettronica. Era un autodidatta instancabile, capace di passare notti intere a smontare apparecchiature e risolvere problemi che altri consideravano insormontabili.
Ma la vera svolta arrivò quando Lawson decise di seguire le opportunità dalla costa opposta degli Stati Uniti. La California, con la nascente Silicon Valley, era un magnete per chiunque volesse vivere all’avanguardia dell’innovazione tecnologica. Trasferirsi lì significava non solo affrontare una nuova vita, ma anche entrare in contatto con le aziende che stavano disegnando il futuro. Negli anni ’70, Lawson trovò la sua casa professionale alla Fairchild Semiconductor, un’azienda che era più di un posto di lavoro: era il crocevia della rivoluzione digitale. Qui, il ragazzo cresciuto con il ritratto di Carver accanto al banco avrebbe iniziato a scrivere il suo capitolo più importante.
Inventare giocando
Se la Fairchild Semiconductor era il laboratorio dei suoi giorni, il vero regno della creatività di Jerry Lawson restava il suo garage. In quegli anni, la maggior parte dei videogiochi era confinata ai grandi computer universitari, macchine costose e inaccessibili al pubblico. Lawson, invece, trasformò un minicomputer PDP-8 della Digital Equipment Corporation in un terreno di sperimentazione personale: lì trascorreva ore a programmare e a giocare con Lunar Lander, un videogioco testuale che simulava l’allunaggio. Non erano solo passatempi: erano prove generali di un futuro che stava cercando di inventare.
Nel 1971, l’uscita di Computer Space, il primo videogioco arcade prodotto in massa, fece scattare in lui una scintilla. Se altri potevano creare universi virtuali a cui la gente si appassionava, perché non poteva farlo anche lui? Fu così che nacque Demolition Derby, un progetto sviluppato sfruttando i microprocessori della Fairchild. Anche se il gioco non vide mai la luce commerciale, servì a mettere in mostra le sue capacità. In un’epoca in cui nessuno immaginava ancora un mercato domestico per i videogame, Lawson era già un passo avanti, capace di intravedere possibilità laddove altri vedevano soltanto prototipi. In questo spirito pionieristico – lo stesso che spinge le persone oggi a cercare idee innovative o persino consigli su bonus di benvenuto in settori apparentemente distanti – Lawson dimostrava che la vera forza di un inventore è anticipare i bisogni non ancora espressi.
Le sue serate in garage non furono soltanto momenti di sperimentazione tecnica, ma il laboratorio intimo di una rivoluzione. Lawson non si limitava a programmare: stava reinventando il concetto stesso di intrattenimento, aprendo la strada a un futuro in cui il gioco non sarebbe più stato confinato alle sale universitarie o ai bar, ma sarebbe potuto entrare nelle case di milioni di persone.
La rivoluzione delle cartucce
Il momento decisivo arrivò nel 1975, quando la Fairchild incaricò Jerry Lawson di guidare un progetto che sembrava secondario, ma che si sarebbe rivelato un punto di svolta nella storia dei videogiochi. Partendo da un prototipo dell’Alpex Computer Corporation, Lawson e il suo team misero a punto il Fairchild Channel F, la prima console domestica con cartucce intercambiabili. Fino a quel momento, i giochi erano integrati direttamente nelle macchine: compravi una console e restavi confinato a una manciata di titoli. Con l’introduzione delle cartucce, invece, il videogioco è diventato un mezzo aperto, flessibile, pronto a crescere insieme all’immaginazione di chi lo creava.
La portata di quell’innovazione fu enorme, anche se spesso dimenticata. Oggi, quando si considerano a colossi come Nintendo o Sony, ci viene naturale associare i loro successi a interi cataloghi di giochi; eppure, quell’idea nacque da Lawson. Il Channel F non ha avuto lo stesso impatto commerciale dell’Atari 2600, ma pone le fondamenta di un’industria multimiliardaria, aprendo la strada a un modello che ancora oggi sostiene l’economia del gaming.
Eppure, il lascito di Lawson va oltre l’aspetto tecnico. La sua figura rappresenta un simbolo di diversità in un settore che, allora come oggi, ha faticato a riconoscere e valorizzare la presenza di professionisti afroamericani. Era un visionario che, partendo dalle strade del Queens e da un ritratto appeso a scuola, arrivò a cambiare per sempre il modo in cui milioni di persone avrebbero giocato, sognato e immaginato. Nonostante il suo nome sia rimasto a lungo nell’ombra, la sua eredità continua a vivere in ogni console che accendiamo e in ogni cartuccia che ha reso possibile l’infinita varietà di mondi digitali che abitiamo oggi.
